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Cass. Civ. sez 3 sent. n. 25156 - 14 ott. 2008. Azione indebito arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione. Condizione imprescindibile:riconoscimento esplicito e inequivocabile dell'utilità della prestazione. Irrilevanza del mero utilizzo

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente

Dott. FILADORO Camillo – rel. Consigliere

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE BASILICATA, in persona del legale rappresentante, il Presidente della Giunta Regionale, B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NIZZA 56, presso L’UFFICIO DI RAPPRESENTANZA DELLA REGIONE BASILICATA, rappresentata e difesa dagli avvocati VIGGIANI MIRELLA, DI GIACOMO VALERIO; giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

L.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO XXI APRILE 61, presso lo studio dell’avvocato SORBELLO SALVATORE, rappresentato e difeso dall’avvocato LOPES ETTORE giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

COM RIONERO IN VULTURE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 395/2004 del TRIBUNALE di MELFI, emessa il 10/08/04, depositata il 07/09/2004; RG. 871/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/09/2008 dal Consigliere Dott. FILADORO CAMILLO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI DOMENICO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
 

Svolgimento del processo
Con sentenza 10 agosto – 7 settembre 2004 il Tribunale di Melfi rigettava l’appello proposto dalla Regione Basilicata avverso la decisione del Giudice di pace di Rionero n. 29 del 2001, che aveva condannato la Regione Basilicata ed il Comune di Rionero in Vulture a corrispondere, in solido tra loro, a titolo di indebito arricchimento, al Geom. L.G. la somma di L. 2.699.000, per l’attività svolta dal professionista nell’ambito di un incarico professionale (conferitogli dallo stesso Comune) per l’accertamento della entità dei danni subiti da privati a seguito del sisma del 5 maggio 1990.

Avverso tale decisione la Regione Basilicata ha proposto ricorso per cassazione sorretto da un unico motivo.

Resiste il L. con controricorso.

Il Comune di Rionero nel Vulture non ha svolto difese in questa sede.
 
Motivi della decisione
Deve innanzi tutto essere rigettata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dal L..

Il resistente, sotto un primo profilo, deduce la inammissibilità del ricorso, osservando che la sentenza impugnata si basa su diverse ragioni, non tutte specificamente censurate dalla ricorrente Regione.

La censura è inammissibile.

I principi enunciati dal controricorrente sono perfettamente in linea con il consolidato insegnamento di questa Corte.

Secondo tale indirizzo, nel caso in cui venga impugnata con ricorso per cassazione una sentenza (o un capo di questa) che si fondi su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerla, è necessario, per giungere alla cassazione della pronuncia, non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l’accoglimento di tutte le censure, affinchè si realizzi lo scopo proprio di tale mezzo di impugnazione, il quale deve mirare alla cassazione della sentenza, “in toto” o nel suo singolo capo, per tutte le ragioni che autonomamente l’una o l’altro sorreggano.

Ne consegue che è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non abbia formato oggetto di censura, ovvero, pur essendo stata impugnata, sia respinta, perchè il ricorso o il motivo di impugnazione avverso il singolo capo di essa, debba essere respinto nella sua interezza, divenendo inammissibili, per difetto di interesse, le censure avverso le altre ragioni poste a base della sentenza o del capo impugnato (Cass. 8 agosto 2005 n. 16602).

Tuttavia, nel caso di specie, il controricorrente non indica espressamente quale sarebbe la autonoma “ratio decidendi” non impugnata dalla ricorrente Regione.

Ne deriva l’inammissibilità della censura.

Sotto un diverso profilo, si deduce nel controricorso la mancata, specifica, indicazione dei documenti depositati dalla ricorrente unitamente al ricorso per cassazione.

Il ricorso per cassazione, osserva il controricorrente, contiene soltanto copie di sentenze non attinenti alla materia del giudizio oltre al fascicolo di parte dei gradi di merito.

Tutto questo non poteva ritenersi sufficiente, poichè i documenti già depositati nelle fasi di merito devono, secondo il resistente, essere integralmente ridepositati anche in sede di legittimità, con la indicazione del foliario, ed essere espressamente riprodotti nel contesto del ricorso, a pena di inammissibilità.

Tra l’altro, la censura oggetto dell’unico motivo di ricorso non conteneva neppure la precisa indicazione dei singoli motivi e delle singole censure, con la identificazione del principio di diritto che si riteneva violato e degli articoli di legge relativi e distinti a ciascuna questione applicabile, non consentendo in tal modo a questa Corte di potere esercitare la propria funzione.

Anche queste censure sono prive di fondamento.

La sentenza impugnata è stata depositata in data 10 agosto 2004.

Non sono applicabili, quindi, “ratione temporis” le nuove norme dettate dal D.Lgs. n. 40 del 2006.

Stabilisce l’art. 366, comma 1, n. 4, (con disposizione del tutto nuova introdotta dal decreto n. 40 del 2006 ed applicabile pertanto solo ai ricorsi contro le sentenze e le pronunce pubblicate a decorrere dal 2 marzo 2006) che il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, la specifica indicazione degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi di lavoro.

In realtà, prima ancora della recente riforma, la giurisprudenza della Cassazione era già consolidata nell’affermare l’esistenza di un onere della parte di riprodurre nel ricorso il contenuto del documento il cui omesso esame fosse censurato, in applicazione del principio della autosufficienza del ricorso.

Non si richiedeva, tuttavia, secondo la disciplina previgente, una seconda produzione di tutti i documenti già prodotti nelle fasi di merito. E per il vero, tale onere, non è neppure prescritto ora dalle nuove disposizioni.

Secondo l’indirizzo giurisprudenziale più rigoroso (Cass. n. 12239 del 2007), con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, ad integrare il requisito della cosiddetta autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione – concernente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (ma la stessa cosa dicasi quando la valutazione doveva essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, o di un vizio integrante error in procedendo ai sensi dei nn. 1, 2 e 4 di detta norma), la valutazione da parte del Giudice di merito di prove documentali – è necessario che tale contenuto sia riprodotto nel ricorso, e che risulti indicata la sede processuale del giudizio di merito in cui tale produzione è avvenuta e la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte, rispettivamente acquisito e prodotto in sede di giudizio di legittimità, essa è rinvenibile.

L’esigenza di tale doppia indicazione, in funzione dell’autosufficienza, si giustifica, al lume della previsione del vecchio art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, che sanzionava (come, del resto, ora il nuovo) con l’improcedibilità la mancata produzione dei documenti fondanti il ricorso, producibili (in quanto prodotti nelle fasi di merito) ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 1.

In base a tali principi, applicabili al caso di specie, deve dunque escludersi che la Regione ricorrente sia incorsa nella dedotta inammissibilità per non avere provveduto a depositare nuovamente i documenti già prodotti innanzi al Giudice di pace ed al Tribunale, essendo stati richiamati, nel ricorso per cassazione, i contenuti dei documenti sui quali il ricorso si fonda e la collocazione degli stessi.

Da ultimo, il L. deduce un sostanziale difetto di interesse della Regione Basilicata alla impugnazione della sentenza di appello del Tribunale di Melfi.

Infatti, poichè il Comune – condannato in solido con la Regione – aveva prestato implicita acquiescenza alla sentenza di appello che condannava i due enti in solido al pagamento della somma riconosciuta al professionista, non avendo provveduto peraltro alla propria difesa in grado di appello, era venuta “a mancare quella situazione subiettiva ed oggettiva costituita da un interesse ad agire onde ottenere giudizialmente di necessità la tutela di un diritto, o quanto meno, la rimozione di uno stato di giuridica incertezza, in quanto la sentenza impugnata del Tribunale era già venuta, per ciò stesso, ad acquistare forza di giudicato nei confronti del Comune, il che poteva ben appagare lo stesso diritto come specificamente azionato in alternativa dal tecnico, con determinata prospettazione.

L’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione ai sensi dell’art. 329 c.p.c., consiste nell’accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest’ultimo caso, l’acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l’interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione. (Cass. 7 febbraio 2008 n. 2826).

A parte tale rilievo, è appena il caso di ricordare che la condanna della Regione in via solidale determinava automaticamente l’insorgenza di un interesse diretto ed immediato dell’ente alla impugnazione (anche in caso di acquiescenza espressa dell’altro convenuto condannato in via solidale: il Comune di Rionero in Vulture).

L’eccezione di inammissibilità del ricorso deve pertanto essere rigettata.

Può ora essere esaminato il ricorso proposto dalla Regione.

Con l’unico motivo la Regione Basilicata denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, nonchè omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, in violazione dell’art. 112 c.p.c..

I Giudici di appello non si erano pronunciati in ordine alla insussistenza di altra azione a ristoro del pregiudizio lamentato.

Nel caso di specie, il professionista avrebbe potuto, e dovuto, esperire una azione diretta nei confronti dei cittadini che avevano richiesto l’accertamento dei danni subiti dagli edifici di loro proprietà, a seguito del sisma, sui quali ricadevano gli oneri relativi agli accertamenti disposti e/o del Ministero per il coordinamento della protezione civile, organo statale tenuto per legge ai rimborsi, finanziabili con il Fondo per la Protezione civile.

Inoltre gli stessi Giudici non si erano pronunciati espressamente in ordine alla “utilitas” delle prestazioni rese dal Geom. L., desumendo un implicito riconoscimento della utilità tratta dalla Regione dalla circostanza che le schede di rilevazione compilate dal professionista erano state consegnate agli uffici dell’ente, che aveva proceduto a calcolare i compensi dovuti a carico del Comune (o di chi di competenza).

In tal modo, tuttavia, il Giudice di appello non aveva considerato che per configurare un riconoscimento implicito della “utilitas” da parte della Pubblica amministrazione non è sufficiente il mero fatto della utilizzazione, essendo invece necessaria “la prova della consapevolezza della materiale e concreta utilizzazione della prestazione da parte degli organi rappresentativi dell’ente”.

Tale prova non era certo desumibile dalle circostanze evidenziate dal Tribunale e cioè dalla consegna delle schede di rilevazione, presentate dai professionisti agli uffici regionali ovvero dall’effettuazione dei calcoli del compensi loro spettanti da parte dei funzionari regionali.

In altre decisioni, lo stesso Tribunale di Melfi aveva riconosciuto l’assenza di un effettivo ed oggettivo vantaggio derivato all’ente ricorrente, accogliendo la tesi difensiva della Regione (che aveva sostenuto che gli unici soggetti avvantaggiati dall’attività svolta dal L. sarebbero stati i cittadini richiedenti) ma non aventi diritto al rimborso degli oneri correlati all’accertamento delle lesioni degli edifici ovvero il Ministero per il coordinamento della Protezione civile.

Osserva il Collegio:

Il ricorso merita accoglimento sotto entrambi i profili di censura denunciati.

Sotto il profilo della sussidiarietà, va ribadito il principio secondo il quale:

“Il carattere sussidiario dell’azione di indebito arricchimento, sancito dall’art. 2042 c.c., comporta che detta azione non possa essere esperita non soltanto quando sussista un’altra azione tipica esperibile dal danneggiato nei confronti dell’arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un’azione sperimentabile contro persone diverse dall’arricchito che siano obbligate per legge o per contratto” (Cass. 27 giugno 1998 n. 6355).

Nel caso di specie, è mancato del tutto tale accertamento, donde l’accoglimento del primo profilo di censura (con il quale si denuncia omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, in ordine all’accertamento della sussistenza di altra azione).

Inoltre, deve rilevarsi anche la insufficienza e contraddittorietà della motivazione relativa alla “utilitas” ricavata dalla Regione in conseguenza della attività svolta.

La scarna motivazione della decisione impugnata accenna, semplicemente, alla circostanza che era stata proprio la Regione a conferire l’incarico al L., così come agli altri professionisti, e che le schede di rilevazione erano poi state consegnate agli uffici competenti dell’ente, che aveva provveduto a calcolare i compensi spettanti ai tecnici per la attività di valutazione dei danni svolta.

Tale comportamento, ad avviso del Giudice di appello, costituirebbe di per sè solo riconoscimento, sia pure implicito, della “utilitas” della prestazione, con conseguente obbligo indennitario a carico della Regione.

Trattasi d’affermazione del tutto apodittica, in quanto non vi si indicano gli elementi sui quali l’espresso convincimento è stato fondato, e, comunque, erronea sotto entrambi i profili presi in considerazione. (Cass. 11133 del 27 luglio 2002).

L’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico, ma anche il riconoscimento, da parte di questo, della utilità dell’opera o della prestazione.

Tale riconoscimento può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne un atto amministrativo valido ed efficace ovvero può anche essere carente delle formalità e dei controlli richiesti, come nel caso in cui l’organo di controllo lo annulli), oppure in modo implicito, cioè mediante l’utilizzazione dell’opera o della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell’ente.

Il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione eseguite dal terzo, che costituisce requisito per l’accoglimento dell’azione d’ingiustificato arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione, sostituendo il requisito dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 c.c., nei rapporti interprivati, può anche risultare in modo implicito da atti o comportamenti della stessa Pubblica Amministrazione dai quali si possa desumere inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione, quindi anche in qualsiasi forma l’utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla Pubblica Amministrazione, sempre che la manifestazione di volontà sia giuridicamente rilevante, “id est” provenga dagli organi istituzionalmente rappresentativi; giudizio che, in ragione dei limiti posti dalla L. 20 marzo 1865, n 2248, art. 4, All. E, è riservato esclusivamente alla stessa Pubblica Amministrazione e non può essere effettuato sotto alcun profilo dal Giudice ordinario, il quale può essere solo chiamato ad accertare se ed in quale misura l’opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate.

Come sottolinea Cass. 2312 del 2008, l’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. richiede, quale condizione imprescindibile, il riconoscimento dell’utilità della prestazione, che non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa, occorrendo un’inequivoca, ancorchè implicita, manifestazione di volontà al riguardo, promanante da organi rappresentativi dell’amministrazione interessata.

Ciò anche se – come questa Corte ha già avuto occasione d’osservare, anche recentemente con sent. 2.10.98 n. 9795 – che il riconoscimento dell’utilità sostituisce, nell’azione ex art. 2041 c.c., promossa nei confronti della Pubblica Amministrazione, il requisito dell’arricchimento, questo non richiedendo necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale ma potendo consistere in qualsiasi vantaggio derivante dall’utilizzazione dell’opera o della prestazione, quindi anche in un risparmio di spesa.

Manca, nella decisione impugnata, qualsiasi accertamento e motivazione in proposito.

Il ricorso deve conclusivamente essere accolto con rinvio ad altro giudice che provvedere a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.
 

——————————————————————————–
AMMINISTRAZIONE PUBBLICA   –   ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA   –   INDEBITO   
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza e rinvia al Tribunale di Lagonegro, anche per le spese del presente giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio il 22 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2008
 


Sotto il profilo della sussidiarietà, va ribadito il principio secondo il quale:

“Il carattere sussidiario dell’azione di indebito arricchimento, sancito dall’art. 2042 c.c., comporta che detta azione non possa essere esperita non soltanto quando sussista un’altra azione tipica esperibile dal danneggiato nei confronti dell’arricchito, ma anche quando vi sia originariamente un’azione sperimentabile contro persone diverse dall’arricchito che siano obbligate per legge o per contratto” (Cass. 27 giugno 1998 n. 6355).

Nel caso di specie, è mancato del tutto tale accertamento, donde l’accoglimento del primo profilo di censura (con il quale si denuncia omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, in ordine all’accertamento della sussistenza di altra azione).

Inoltre, deve rilevarsi anche la insufficienza e contraddittorietà della motivazione relativa alla “utilitas” ricavata dalla Regione in conseguenza della attività svolta.

La scarna motivazione della decisione impugnata accenna, semplicemente, alla circostanza che era stata proprio la Regione a conferire l’incarico al L., così come agli altri professionisti, e che le schede di rilevazione erano poi state consegnate agli uffici competenti dell’ente, che aveva provveduto a calcolare i compensi spettanti ai tecnici per la attività di valutazione dei danni svolta.

Tale comportamento, ad avviso del Giudice di appello, costituirebbe di per sè solo riconoscimento, sia pure implicito, della “utilitas” della prestazione, con conseguente obbligo indennitario a carico della Regione.

Trattasi d’affermazione del tutto apodittica, in quanto non vi si indicano gli elementi sui quali l’espresso convincimento è stato fondato, e, comunque, erronea sotto entrambi i profili presi in considerazione. (Cass. 11133 del 27 luglio 2002).

L’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. differisce da quella ordinaria, in quanto presuppone non solo il fatto materiale dell’esecuzione di un’opera o di una prestazione vantaggiosa per l’ente pubblico, ma anche il riconoscimento, da parte di questo, della utilità dell’opera o della prestazione.

Tale riconoscimento può avvenire in maniera esplicita, cioè con un atto formale (il quale, peraltro, può essere assistito dai crismi richiesti per farne un atto amministrativo valido ed efficace ovvero può anche essere carente delle formalità e dei controlli richiesti, come nel caso in cui l’organo di controllo lo annulli), oppure in modo implicito, cioè mediante l’utilizzazione dell’opera o della prestazione consapevolmente attuata dagli organi rappresentativi dell’ente.

Il riconoscimento dell’utilità dell’opera o della prestazione eseguite dal terzo, che costituisce requisito per l’accoglimento dell’azione d’ingiustificato arricchimento nei confronti della Pubblica Amministrazione, sostituendo il requisito dell’arricchimento previsto dall’art. 2041 c.c., nei rapporti interprivati, può anche risultare in modo implicito da atti o comportamenti della stessa Pubblica Amministrazione dai quali si possa desumere inequivocabilmente un effettuato giudizio positivo circa il vantaggio o l’utilità della prestazione, quindi anche in qualsiasi forma l’utilizzazione della prestazione consapevolmente attuata dalla Pubblica Amministrazione, sempre che la manifestazione di volontà sia giuridicamente rilevante, “id est” provenga dagli organi istituzionalmente rappresentativi; giudizio che, in ragione dei limiti posti dalla L. 20 marzo 1865, n 2248, art. 4, All. E, è riservato esclusivamente alla stessa Pubblica Amministrazione e non può essere effettuato sotto alcun profilo dal Giudice ordinario, il quale può essere solo chiamato ad accertare se ed in quale misura l’opera o la prestazione del terzo siano state effettivamente utilizzate.

Come sottolinea Cass. 2312 del 2008, l’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. richiede, quale condizione imprescindibile, il riconoscimento dell’utilità della prestazione, che non può essere desunta dalla mera acquisizione e successiva utilizzazione della prestazione stessa, occorrendo un’inequivoca, ancorchè implicita, manifestazione di volontà al riguardo, promanante da organi rappresentativi dell’amministrazione interessata.

Ciò anche se – come questa Corte ha già avuto occasione d’osservare, anche recentemente con sent. 2.10.98 n. 9795 – che il riconoscimento dell’utilità sostituisce, nell’azione ex art. 2041 c.c., promossa nei confronti della Pubblica Amministrazione, il requisito dell’arricchimento, questo non richiedendo necessariamente un contenuto di diretto incremento patrimoniale ma potendo consistere in qualsiasi vantaggio derivante dall’utilizzazione dell’opera o della prestazione, quindi anche in un risparmio di spesa.

Manca, nella decisione impugnata, qualsiasi accertamento e motivazione in proposito.

Il ricorso deve conclusivamente essere accolto con rinvio ad altro giudice che provvedere a nuovo esame, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio.
 

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